Il TAGLIO DELLE “PENSIONI D’ORO”
TRA ISTANZE POLITICHE E PRINCIPI COSTITUZIONALI

1. La riduzione dei trattamenti pensionistici “elevati” nel contesto della manovra economica della legge di bilancio.

L’attacco alle “pensioni d’oro” si è consumato, con il taglio dei trattamenti imposto dall’art. 1, commi da 261 a 268, della legge 30 dicembre 2018, n. 145, recante il bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019. Ha fatto seguito all’attacco ai vitalizi dei parlamentari, che pure presentava profili affatto diversi. Vi ha fatto ulteriore seguito l’attacco a pensioni di metallo meno pregiato (argento, bronzo, etc…), delle quali il comma 260 ha limitato l’adeguamento al costo della vita.
Secondo il legislatore, per “pensioni d’oro” si intendono i trattamenti pensionistici di importo superiore ad € 100.000,00 lordi annui, corrispondenti all’importo netto di € 63.830,00 (€ 4.910,00 mensili) per effetto dell’IRPEF di € 36.170,00 dovuta con aliquota media del 36,17%. Ad esse viene applicata per la durata di cinque anni una ulteriore ritenuta del 10% per la fascia da € 100.000 a € 130.000; del 25% per quella da € 130.000 ad € 200.000; del 30% per quella da € 200.000 ad € 350.000; del 35% per quella da € 350.000 ad € 500.000; del 40% per gli importi superiori.
Secondo stime correnti, la misura dovrebbe interessare 24.287 persone (su un totale di 17.886.623 oggigiorno trattamenti esistenti) e potrebbe produrre un gettito oscillante tra i 76 e i 90 milioni di euro l’anno, rispetto alla spesa di 96.401.599.168 euro prevista per le politiche previdenziali secondo il quadro generale riassuntivo allegato alla l. n. 145 del 2018. La misura si collega direttamente ai precedenti commi 255 e 256 della legge di bilancio, che prevedono l’introduzione nell’ordinamento di redditi e pensioni di cittadinanza e di ulteriori modalità di pensionamento anticipato, al fine di incentivare l’assunzione di lavoratori giovani, per un importo di spesa di complessivi 11,068 miliardi di euro. Blocco della rivalutazione e taglio delle pensioni d’oro rappresentano gli unici sacrifici previsti a carico dei cittadini da una manovra dichiaratamente espansiva, diretta a migliorare il tenore di vita delle categorie disagiate.
Non sono qui in discussione le scelte di politica economica sottese a questa manovra. Si tratta di problemi assai complessi, che impongono un delicato bilanciamento compressivo dei contrapposti interessi, nel quadro delle compatibilità economiche, e che rendono necessari il reperimento delle relative risorse e la ripartizione di sacrifici ed oneri tra svariate categorie di soggetti.
Nessuna di queste scelte può essere effettuata senza l’integrale rispetto dei principi che sono a fondamento dell’ordinamento giuridico. Nessun nobile intento e nessuna volontà riformatrice possono giustificare un qualsiasi intervento che pretenda di superare o di aggirare questi principi nel nome di un proclamato interesse superiore o di asserite ragioni di equità e di giustizia sociale. È un metodo pericoloso, che realizza lo scopo ideale ma lede il principio di legalità che garantisce il rispetto dei diritti della persona.
A Bassanio, che invoca il doge affinché “piegasse per una volta la legge alla sua autorità”, al fine di conseguire con un “piccolo errore“ “una cosa molto giusta”, così risponde la bella Porzia, travestita da giovane dottore in legge: “Non deve accadere. Nessun potere a Venezia può alterare una legge vigente. Sarebbe registrato come un precedente, e da questo esempio molti torti potrebbero fluire all’interno dello Stato. Non può accadere” (W. Shakespeare, The Merchant of Venice, Atto IV, Scena I, righi 2159-2163).

2. Questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi da 261 a 268, della legge 30 dicembre 2018, n. 145.

In questa prospettiva il taglio delle “pensioni d’oro” suscita rilevanti e fondati dubbi di legittimità costituzionale per contrasto con i seguenti principi e le seguenti norme:

a) art. 23 Cost.: la violazione della riserva di legge

L’art. 23 Cost. dispone che “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”. Si tratta di una delle principali manifestazioni del sistema di democrazia rappresentativa su cui si fonda l’ordinamento giuridico. Esso trova il più significativo antecedente storico nel Bill of Rights emanato in Inghilterra nel 1689 , che ha costituito il fondamento della prima monarchia parlamentare costituzionale in Europa; si è tradotto nel principio no taxation without rapresentation, che ha rappresentato la causa prossima della rivoluzione americana; è fluito in quasi tutte le Costituzioni dei più importanti Stati dell’età contemporanea. La norma costituzionale vuole scongiurare che i cittadini possano essere sottoposti a forme di imposizione stabilite unilateralmente dal potere esecutivo ed intende assicurare che i loro doveri verso la collettività siano stabiliti dall’organo elettivo che rappresenta l’intera popolazione attraverso il confronto tra maggioranza ed opposizione.
In qual modo questo principio è stato attuato nel caso di specie?
La scelta di far gravare il maggior peso della manovra sui titolari di pensioni elevate è stata propugnata nell’ambito di una martellante campagna mediatica affidata a messaggi emotivi e finalizzata al conseguimento di consensi elettorali, piuttosto che attraverso una analisi ponderata dei delicati problemi che si sottendono ad ogni operazione di redistribuzione dei redditi. Tuttavia, nonostante i precedenti annunci e proclami, il testo della legge di bilancio per l’anno 2019 presentato dal Governo alla Camera dei Deputati in data 31 ottobre 2018 ed approvato dall’Assemblea nella seduta dell’8 dicembre 2018, non conteneva nessuna disposizione di tale genere (cfr. A.C. 1334). Il deliberato taglio delle “pensioni d’oro” è stato introdotto per la prima volta – insieme ad altra disposizione che prevedeva la riduzione degli adeguamenti delle pensioni di minore importo – nell’ambito di un emendamento, interamente sostitutivo dell’art. 1, che è stato presentato dal Governo al Senato, con connessa presentazione della questione di fiducia, nella seduta iniziata alle ore 14,10 del giorno 22 dicembre 2018 (cfr. A.S. 981). Il “maxi-emendamento” è stato esaminato dalla Commissione Bilancio in una riunione durata un paio di ore (in gran parte assorbite dalla richiesta governativa di apportare alcune marginali modifiche al testo presentato in aula) ed è stato poi approvato dal Senato con votazione nominale terminata alle ore 2,37 di domenica 23 dicembre 2018, dopo una discussione di circa 3 ore. Il disegno di legge ha avuto un iter analogo nella nuova fase che si è svolta alla Camera dei Deputati (cfr. A.C. 1334-B). L’atto è stato esaminato dalla V^ Commissione Bilancio il 27 dicembre 2018, con presentazione di alcuni emendamenti, che sono tuttavia decaduti nella seduta in aula del 28 dicembre 2018, nel corso della quale il Governo ha posto la questione di fiducia sull’art. 1. Il testo è stato quindi definitivamente approvato dalla Camera nella seduta del 30 dicembre 2018.
Al Parlamento è stato dunque assegnato un compito di mera ratifica della legge fondamentale che regola l’equilibrio economico-finanziario dello Stato e, specificamente, delle norme relative alla ripartizione degli relativi oneri. In particolare, è mancato qualunque confronto sulle disposizioni che danno attuazione all’intento della maggioranza di far cadere gli oneri più elevati sulla categoria dei titolari di pensioni di importo “elevato”. Nella competente sede parlamentare non è stato possibile neppure discutere gli emendamenti presentati, come quello che proponeva di finanziare un piano straordinario contro la povertà con un contributo di solidarietà dello 0,8 per cento sui patrimoni superiori ai 3 milioni di euro (cfr. il resoconto della seduta della Camera del 29 dicembre 2018).
Si può ritenere, in simili circostanze, che sia stato effettivamente rispettato il principio contenuto nell’art. 23 della Costituzione?

b) artt. 3 e 53 della Costituzione: la violazione del principio della universalità del prelievo fiscale.

Al fine di scrutinare i profili di legittimità costituzionale delle norme in esame sotto il profilo sostanziale, occorre pregiudizialmente stabilire quale sia la natura giuridica della fattispecie. Premesso che la riduzione non incide sull’astratto ammontare del trattamento pensionistico determinato in base al vigente ordinamento previdenziale, ma comporta piuttosto l’applicazione di una ritenuta sull’importo astrattamente dovuto, è necessario determinare quale sia l’esatta natura del prelievo.
A tal riguardo occorre tener conto della giurisprudenza costituzionale che si è formata in relazione a precedenti interventi analoghi. Invero, l’attuale provvedimento non rappresenta una misura innovativa determinata da un nuovo corso politico e da nuove istanze sociali, ma si inserisce in una tendenza legislativa volta a colpire a cadenze periodiche ed a ritmo crescente il ceto dei pubblici dipendenti e dei pensionati.
In particolare, si tratta della terza riduzione dei trattamenti pensionistici “elevati” disposta negli ultimi otto anni, per tempi progressivamente più lunghi e con aliquote sempre più alte. L’attuale taglio allunga a cinque anni quelli già disposti per un periodo triennale una prima volta dall’art. 18, comma 22 bis, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, e una seconda volta dall’art. 1, comma 486, della l. 27 dicembre 2013, n. 147. In relazione a questi precedenti interventi la Corte Costituzionale ha assunto un orientamento non univoco: nel primo caso ha ritenuto che si trattasse di una ritenuta di natura fiscale, soggetta ai principi contenuti negli artt. 3 e 53 Cost. e del tutto analoga a quella applicata sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti ai sensi dell’art. 9, comma 2, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78 (cfr. Corte Cost., sentenza 5 giugno 2013, n. 116); nel secondo caso ha ravvisato una più generica prestazione patrimoniale imposta, riconducibile alle previsioni dell’art. 23 Cost., volta a realizzare “un circuito di solidarietà interno al sistema previdenziale” e non pure ai principi della fiscalità generale (cfr. Corte Cost., 13 luglio 2016, n. 173).
Non sembra dubbio che la ritenuta qui in esame debba essere ricondotta alla specifica specie delle misure di natura fiscale (e non solo al più ampio genere delle prestazioni patrimoniali imposte), in armonia con la prima sentenza della Corte Costituzionale; e ciò non solo per le perplessità suscitate dalla seconda pronuncia, ma anche per ragioni specifiche che si desumono dalla analisi dell’art. 1, commi da 261 a 268, della l. n. 145 del 2018, in collegamento sistematico con i precedenti commi 255 e 256. La ritenuta (che ha tutti i caratteri propri del tributo e che è posta a carico dei soli titolari di pensione liquidata anche solo in parte con il criterio retributivo) tende a coprire i costi di nuovi interventi di rilevanza sociale (concessione di reddito e pensione di cittadinanza ed allargamento degli accessi al sistema pensionistico) che eccedono di gran lunga i limiti interni del “circuito previdenziale” e che, interessando l’intera società civile, impongono di far ricorso alla fiscalità generale.
Da queste premesse deriva la manifesta incostituzionalità della odierna normativa per ragioni identiche a quelle affermate dalla citata sentenza della Corte Costituzionale n. 116 del 2013 in relazione all’art. 18, comma 22 bis, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98. È violato il principio dell’universalità del prelievo tributario, per il quale gli oneri della finanza pubblica devono essere equamente distribuiti tra “tutti” i soggetti dell’ordinamento e non possono essere posti a carico sempre della stessa categoria di persone, irragionevolmente individuata nella ristretta cerchia dei pensionati anziché nella più ampia ottica dell’intera società.

c) artt. 3 e 53 della Costituzione: la violazione del principio di capacità contributiva.

Premessa la natura tributaria del prelievo, le norme in esame si pongono in contrasto con l’art. 53 della Costituzione anche perché violano il principio di capacità contributiva. Secondo la Corte Costituzionale, “al legislatore spetta un’ampia discrezionalità in relazione alle varie finalità alle quali s’ispira l’attività di imposizione fiscale (sentenza n. 240 del 2017), con il solo il limite della non arbitrarietà e della non manifesta irragionevolezza e sproporzione” (Corte Cost., 14 dicembre 2017, n. 269).
La norma in esame viola tale principio sotto un duplice profilo:

i) perché ritiene che la titolarità di una pensione di importo superiore alla media, liquidata anche parzialmente con il sistema retributivo, rappresenti una situazione di particolare privilegio ed individui una particolare capacità contributiva, capace di differenziare i suoi titolari da ogni altra categoria di soggetti e di giustificare l’applicazione a loro esclusivo carico di uno speciale tributo;

ii) perché, in contrasto con la generale tendenza verso una progressiva riduzione della imposizione diretta, stabilisce per un periodo assai lungo aliquote assai elevate, in misura fino a cinque volte più onerosa di quanto previsto dalla precedente norma analoga dichiarata incostituzionale, così eccedendo i limiti massimi della tassazione insiti nel sistema tributario.

d) art. 23 Cost., in relazione agli artt. 2, 3, 36, 38 ed 81 Cost.: la violazione dei principi inerenti all’imposizione di prestazioni patrimoniali.

La normativa in esame si pone in contrasto non solo con gli specifici principi che regolano la tassazione, ma anche con quelli che disciplinano il più ampio genere delle “prestazioni patrimoniali imposte”. Come già evidenziato, la Corte Costituzionale ha ricondotto a questa categoria generale il “contributo di solidarietà” previsto dall’art. 1, comma 486, n. 147 del 2013 (cfr. Corte Cost., sentenza 13 luglio 2016, n. 173); ha per questo negato che esso possedesse caratteri di fiscalità e che fosse regolato dai principi stabiliti dall’art. 53 Cost..
Non di meno, la citata sentenza ha fissato limiti assai rigorosi alla applicabilità di simili forme di contributo ed ha previsto la necessità di un attento bilanciamento tra le esigenze della finanza pubblica e di equilibrio del sistema previdenziale ed i contrapposti principi di eguaglianza, di proporzionalità della retribuzione, di previdenza e di protezione delle persone anziane; ha affermato in particolare che l’imposizione di un simile contributo sulle pensioni “può ritenersi misura consentita al legislatore ove la stessa non ecceda i limiti entro i quali è necessariamente costretta in forza del combinato operare dei principi, appunto, di ragionevolezza, di affidamento e della tutela previdenziale (artt. 3 e 38 Cost.), il cui rispetto è oggetto di uno scrutinio ‘stretto’ di costituzionalità, che impone un grado di ragionevolezza complessiva ben più elevato di quello che, di norma, è affidato alla mancanza di arbitrarietà”; ha quindi dettato specifiche regole a cui il legislatore si deve strettamente attenere nell’adozione di simili misure. In sintesi, “il contributo di solidarietà, per superare lo scrutinio ‘stretto’ di costituzionalità e palesarsi dunque come misura improntata effettivamente alla solidarietà previdenziale (artt. 2 e 38 Cost.), deve: operare all’interno del complessivo sistema della previdenza; essere imposto dalla crisi contingente e grave del predetto sistema; … ; presentarsi come prelievo sostenibile; rispettare il principio di proporzionalità; essere utilizzato come misura ‘una tantum’”.
Per assicurare la costituzionalità di una simile forma di prelievo occorre dunque la contestuale sussistenza di tutte queste condizioni. Nella fattispecie in esame, invece, non ne ricorre alcuna, perché:

i) la misura in esame non è destinata ad operare nel ristretto ambito del sistema previdenziale ma tende ad assicurare nuove forme di welfare;

ii) non si tratta di misura resa necessaria da una grave crisi del sistema previdenziale, ma di misura finalizzata alla espansione della spesa pubblica ed al finanziamento di nuovi interventi di politica economica;

iii) il “taglio” non è sorretto da una “incontestabile ragionevolezza”, ma assume caratteri manifestamente irragionevoli per le ragioni che saranno meglio esplicitate più in avanti;

iv) non è rispettata la condizione dell’eccezionalità del contributo ed è violato il divieto di trasformarlo in un sistema permanente di finanziamento del sistema previdenziale e della spesa pubblica in genere.

e) art. 3 Cost.: la violazione del principio di uguaglianza

La legge prevede che la riduzione dei trattamenti pensionistici si applica in egual modo a tutti i titolari di pensioni di importo complessivo superiore a 100.000 euro annui a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative dell’assicurazione generale obbligatoria e della Gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, nonché degli Organi costituzionali e di rilevanza costituzionale, con esclusione di quelle liquidate interamente con il sistema contributivo e di quelle previste dal comma 268. Per i titolari di più trattamenti pensionistici la riduzione si applica in proporzione agli importi di ciascuna pensione ed è determinata attraverso una conferenza di servizi indetta ai sensi dell’art. 14, l. 7 agosto 1990, n. 241, e successive modifiche ed integrazioni. La norma appare lesiva del principio di uguaglianza perché equipara situazioni affatto diverse ed assume caratteri di manifesta irragionevolezza, ove si consideri che:

i) il sistema vigente prevede cinque diverse forme assicurative obbligatorie di previdenza: l’assicurazione generale obbligatoria, cui sono iscritti i lavoratori dipendenti del settore privato ed i lavoratori autonomi e i liberi professionisti “senza cassa”; le forme sostitutive cui sono iscritti particolari tipologie di lavoratori dipendenti del settore privato; le forme esclusive cui sono iscritti la generalità dei lavoratori dipendenti di amministrazioni statali e degli enti locali e della sanità; le forme integrative; le forme di previdenza per i liberi professionisti, che sono gestite da una ventina di Enti di categoria (Cassa nazionale del Notariato; Cassa Forense o Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense; Cassa Italiana di Previdenza ed Assistenza dei Geometri Liberi Professionisti; Cassa Ragionieri e Periti Commerciali; Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza a favore dei Dottori Commercialisti; Cassa Biologi; Cassa Consulenti del Lavoro; Cassa dei Farmacisti; Cassa Agrotecnici e Periti Agrari; Cassa Medici; Cassa Psicologi; Cassa Veterinari; Cassa Dottori Agronomi, Forestali, Attuari, Chimici, Geologi; Cassa Periti Industriali; Cassa Ingegneri e Architetti; Cassa Giornalisti e Liberi Professionisti; Cassa Infermieri, Assistenti Sanitari e Vigilatrici d’Infanzia; Fondo Previdenza Spedizionieri Doganali; Enasarco), istituiti con d.lgs. 30 giugno 1994, n. 509 (enti pubblici trasformati in associazioni o fondazioni con personalità giuridica di diritto privato) e con d.lgs. 10 febbraio 1996, n. 103 (costituzione di fondazioni con personalità giuridica di diritto privato). A questi sistemi si aggiungono quelli gestiti dagli Organi costituzionali ed a rilevanza costituzionale.
La disciplina previdenziale differisce anche in modo notevole in funzione del genere di forma assicurativa e dal fondo in cui il lavoratore è iscritto, con riguardo all’ammontare dei contribuiti dovuti, alle prestazioni che possono essere conseguite, alle modalità di calcolo delle suddette prestazioni ed alla facoltà di trasferire, totalizzare o cumulare la contribuzione versata nelle diverse gestioni della previdenza obbligatoria. Invero, ciascuna Cassa ha il proprio regolamento, che ne regola l’attività. Contribuzione, requisiti minimi di accesso e tipologia di prestazioni effettivamente erogate possono quindi variare a seconda della Cassa di riferimento. Pur operando sotto la stretta vigilanza dei Ministeri competenti, ciascuna Cassa può beneficiare di una propria autonomia gestionale e organizzativa tale da poter declinare le proprie misure previdenziali, assistenziali e di welfare a seconda delle peculiarità proprie della propria platea di iscritti e della loro professione. Così come per gli iscritti all’INPS, alle prestazioni previdenziali per vecchiaia, invalidità e superstiti si possono affiancare, con modalità specifiche per ciascuna Cassa, ulteriori trattamenti o misure che non devono necessariamente trovare riscontro nell’operato delle altre Casse.
Il taglio delle “pensioni d’oro” ha colpito in egual modo tutte queste forme di previdenza, senza tener conto delle significative differenze esistenti tra loro, così equiparando illegittimamente situazioni differenti;

ii) la norma tratta in modo irragionevolmente discriminatorio coloro che fruiscano di una sola pensione (anche per essersi avvalsi della facoltà di ricongiunzione di diverse gestioni) e coloro che godano di una pluralità di trattamenti: nel primo caso la ritenuta è applicata immediatamente e con certezza, nel secondo caso è affidata all’esito di una improbabile conferenza di servizi che dovrebbe essere indetta in forme e termini imprecisati per coordinare l’attività di oltre 20 Enti gestori che gestiscono dati relativi a milioni di pensionati;

iii) le disposizioni in esame lasciano invariata la normativa che regola la liquidazione delle pensioni, ma si limita a disporre l’applicazione di una ritenuta su quelle di importo “elevato”. Si determina quindi un diritto diseguale, perché si incide soltanto su alcuni effetti di una disciplina che continua ad applicarsi in modo uniforme alla generalità dei soggetti interessati;

iv) la diversità dell’ammontare delle pensioni liquidate con il sistema retributivo in base alla vigente disciplina previdenziale, dipende a propria volta dalla durata del periodo di servizio, dall’ammontare dei contributi pagati e dall’ammontare della retribuzione percepita nel periodo di lavoro in rapporto alla qualità ed alla quantità del lavoro prestato. Le disposizioni in esame colpiscono dunque irragionevolmente i fattori che generano l’attribuzione di un trattamento pensionistico di maggiore importo, quali lo svolgimento di un lavoro più oneroso e complesso, la maggiore durata del periodo di servizio e l’avvenuto pagamento di maggiori contributi;

v) la riduzione si applica per il solo fatto che una qualsiasi parte della pensione sia stata liquidata con il sistema retributivo. Si equiparano quindi situazioni affatto diverse, come quella di chi fruisca interamente del sistema retributivo (e cioè, secondo la disciplina ordinariamente applicabile alla generalità dei lavoratori dipendenti, chi abbia maturato almeno 18 anni di servizio alla data del 31 dicembre 1995 e sia stato collocato a riposo prima del 31 dicembre 2011) e chi abbia beneficiato di tale sistema solo per una minima parte;

vi) la normativa in esame si rivolge esclusivamente ai titolari di trattamenti pensionistici liquidati con il sistema retributivo, senza considerare le ragioni che razionalmente giustificano l’applicazione di tale sistema (di cui peraltro non sono stati modificati in alcun modo i presupposti normativi). Invero, la legislazione vigente tende a tutelare la posizione dei lavoratori che nel passato, essendo stati iscritti a forme di gestione ispirate al sistema retributivo, hanno versato contributi necessari per sostenere (non il proprio futuro trattamento pensionistico, come avviene nel sistema contributivo), ma i trattamenti dei pensionati delle precedenti generazioni. Inoltre, essi hanno potuto fruire in minor misura dei benefici della previdenza complementare, che ha accompagnato il passaggio al sistema contributivo. Infine, gli odierni titolari di pensioni “elevate” si identificano con coloro che, essendo titolari di retribuzioni superiori alla media, hanno versato contributi più elevati, concorrendo in maggiore misura al sostegno del sistema previdenziale, secondo i principi della solidarietà inter-generazionale.
La corretta applicazione di questi principi implica che gli odierni titolari di trattamenti pensionistici dovrebbero fruire del medesimo trattamento che hanno consentito di applicare nel passato con il versamento dei propri contributi ai pensionati della generazione precedente. Il principio di solidarietà sarebbe invece invocato a sproposito, qualora si volesse affermare che in base ad esso i titolari di trattamenti pensionistici che siano liquidati, anche solo in parte, con il sistema retributivo si debbano far carico degli oneri del sistema previdenziale nel proprio complesso (che pure dovrebbe ritenersi ormai in tendenziale equilibrio, grazie alla progressiva diffusione del sistema contributivo) o, addirittura, del fabbisogno delle generazioni future;

vii) l’indiscriminata riduzione dei trattamenti pensionistici non tiene conto dei precedenti interventi legislativi che hanno variamente modificato l’ordinaria disciplina previdenziale allo scopo di meglio graduare il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, in considerazione dei periodi di servizio già svolti e dei contributi già versati dai lavoratori dipendenti in servizio (cfr. principalmente d.lgs. n. 503 del 1992; d.lgs. n. 335 del 1995; l. n. 449 del 1997; art. 24, l. n. 214 del 2011; art. 1, comma 113 e commi da 707 a 709 della l. n. 190 del 2014). Ai vari interventi legislativi che hanno progressivamente limitato la misura dei trattamenti pensionistici attraverso un delicato riallineamento degli elementi che incidono sulla loro determinazione, si aggiunge ora un intervento che opera indiscriminatamente sulla misura del pagamento degli importi così determinati. Ciò comporta un ulteriore elemento di diseguaglianza, perché si realizza una doppia decurtazione che non trova giustificazione logica né corrispondenza in fattispecie analoghe;

viii) nell’ordinario sistema previdenziale le pensioni di importo “elevato” liquidate con il sistema retributivo non solo non fruiscono di nessun criterio di calcolo privilegiato, ma scontano al contrario criteri di determinazione meno favorevoli: per un verso sono interamente coperte dal versamento di contributi (a differenza della gran parte delle pensioni minime e di quelle pari a 2-3 volte il minimo, che rappresentano il maggior numero delle pensioni erogate e che sono in tutto o in parte a carico della fiscalità generale); per altro verso sono liquidate con l’applicazione di un coefficiente di rivalutazione che decresce con l’aumento della retribuzione. Inoltre, per l’importo superiore a 75.000,00 euro tali pensioni sono interamente assoggettate ad I.R.P.E.F. con massima aliquota fiscale (43%). I principi solidaristici trovano dunque adeguata espressione nella vigente disciplina pensionistica e tributaria, in guisa che un’ulteriore riduzione del trattamento spettante assume i caratteri di una ingiusta misura punitiva;

ix) il sistema tributario è indirizzato verso una costante riduzione dei carichi fiscali, con applicazione di aliquote proporzionali agevolate per specifiche categorie di reddito, di regimi sostitutivi e cedolari secche, di ritenute a titolo di imposta, e simili. Solo per i titolari di pensioni di importo elevato, che già rientrano nella ristrettissima cerchia di soggetti assoggettati alla massima aliquota fiscale con criterio di progressività, viene applicato un ulteriore prelievo, peraltro di consistente entità.

f) artt. 2, 3, 36, 38 e 97 Cost. ed artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1, Protocollo addizionale n. 1 alla CEDU e all’art. 6, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione Europea: la violazione del principio dell’affidamento e del principio di proporzionalità.

La riduzione dei trattamenti pensionistici, di qualsiasi importo, viola il principio della certezza del diritto e dell’affidamento riposto dagli interessati nella stabilità delle situazioni giuridiche e nel rispetto delle leggi e dei provvedimenti della pubblica Autorità. Si tratta di principi immanenti nell’ordinamento costituzionale, tutelati dai trattati internazionali vigenti e dal diritto dell’Unione Europea, che nel caso di specie risultano violati.
È violato altresì il principio di proporzionalità, che pure costituisce elemento fondamentale del diritto dell’Unione. A fronte di un rilevante sacrificio economico a carico dei soggetti passivi e di una significativa alterazione del proprio tenore di vita e della propria sicurezza per il futuro, si realizza un gettito del tutto inadeguato a realizzare i dichiarati obiettivi di contrastare la povertà, la disuguaglianza e l’esclusione sociale e di consentire ulteriori accessi al sistema previdenziale ed incentivare l’assunzione di lavoratori giovani.

g) art. 136 Cost.: la violazione del giudicato costituzionale

Secondo noti indirizzi della Consulta, il giudicato costituzionale determina un’efficacia preclusiva nei confronti del legislatore, perché limita la sua discrezionalità e gli impedisce di emanare qualunque disposizione che intenda “mantenere in piedi o […] ripristinare, sia pure indirettamente, […] gli effetti di quella struttura normativa che aveva formato oggetto della […] pronuncia di illegittimità costituzionale” (Corte Cost., sentenza n. 72 del 2013), o che “ripristini o preservi l’efficacia di una norma già dichiarata incostituzionale” (Corte Cost., sentenza n. 350 del 2010). Invero, la riproposizione di norme già dichiarate incostituzionali contrasta con l’art. 136, primo comma, Cost., perché vanifica l’efficacia delle decisioni della Corte Costituzionale e ripristina l’efficacia di disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento.
La Corte Costituzionale ha chiarito la portata dell’art. 136, primo comma, Cost., precisando che il giudicato costituzionale è violato non solo quando il legislatore emana una norma che costituisce una “mera riproduzione” di quella già ritenuta lesiva della Costituzione (cfr. Corte Cost., sentenze n. 73 del 2013 e n. 245 del 2012), ma anche se la nuova disciplina mira a “perseguire e raggiungere, anche se indirettamente, esiti corrispondenti” (Corte Cost., sentenze n. 5 del 2017, n. 73 del 2013, n. 245 del 2012, n. 922 del 1988, n. 223 del 1983, n. 88 del 1966).
Quest’ultima ipotesi ricorre nel caso di specie. Il Governo ha reintrodotto la riduzione dei trattamenti previdenziali di importo “elevato”, riproducendo esattamente lo stesso meccanismo già previsto dall’art. 18, comma 22 bis, del d.l. n. 98 del 2011, dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza della Corte Costituzionale del 5 giugno 2013, n. 116, per contrarietà ai principi di uguaglianza e di universalità contenuti negli artt. 3 e 53 Cost.; l’unica effettiva differenza è rappresentata dalla maggiore onerosità delle disposizioni reiterate, che incidono per un periodo quasi doppio e con aliquote fino a cinque volte maggiori rispetto alla disciplina precedente.
Sono stati parimenti obliterati i principi stabiliti dalla successiva sentenza della Corte Costituzionale del 13 luglio 2016, n. 173, con riferimento all’imposizione di prestazioni patrimoniali sui trattamenti previdenziali, del genere stabilito dal precedente art. 1, comma 486, della l. 27 dicembre 2013, n. 147. Il Governo ha ritenuto di poter proseguire sulla strada dei tagli alle pensioni, confidando nella possibilità – espressa nella relazione di accompagnamento – che “la Corte fornisc[a] il proprio contributo per invertire le spinte espansionistiche insite nel sistema, valorizzando il principio del bilanciamento complessivo degli interessi costituzionali nel quadro delle compatibilità economiche e finanziarie”.
Tuttavia, la Corte Costituzionale non fornisce contribuiti al legislatore, ma si limita a garantire il rispetto dei principi costituzionali; ed il legislatore deve rispettare questi principi, senza auspicare atteggiamenti benevoli e flessibili da parte della Corte Costituzionale.

3. La tutela giurisdizionale dei diritti e dei principi costituzionali.

Per queste principali ragioni, che si intende chiarire ed approfondire ulteriormente nelle competenti sedi giurisdizionali, la normativa sui tagli delle “pensioni d’oro” si espone ad eccezioni di legittimità costituzionale rilevanti e non manifestamente infondate. In contrasto con i precedenti orientamenti della giurisprudenza, i maggiori oneri della crisi economica (ovvero, nel caso di specie, il compito di finanziare le politiche di contrasto alla povertà) sono accollati sulla categoria “debole” dei pensionati, ancorché di “eccellenza”, salvaguardando altre categorie di soggetti, ancorché dotati di uguale o maggiore capacità economica. L’imposizione si addensa sui redditi di lavoro dipendente, quali sono quelli di pensione, che già scontano i livelli di tassazione più elevata. In tal modo, la politica economica sembra orientata più verso la perequazione del disagio e l’omogeneizzazione delle situazioni di difficoltà che verso una equa redistribuzione dei redditi nell’ambito della società civile.
L’accentuata lotta alle “pensioni d’oro” si inserisce in questa logica e tende a creare inopportuni conflitti all’interno della stessa categoria meritevole di tutela, secondo i principi contenuti negli articoli 36 e 38 della Costituzione. In realtà, la titolarità di pensioni di importo “elevato”, ancorché conseguita con la parziale applicazione del sistema retributivo, non costituisce il frutto di un indebito privilegio e non giustifica l’applicazione di provvedimenti normativi a carattere ingiustamente discriminatorio, come un’analisi razionale dimostra facilmente.
Infine, nessun pregio può essere riconosciuto al c.d. interesse fiscale. Non basta predicare l’esistenza di preminenti ed inderogabili finalità di ordine politico e sociale, idonee a tradursi in un interesse superiore dello Stato. Si tratterebbe di un argomento assiomatico, astrattamente idoneo a giustificare qualunque genere di tassazione a carico di qualunque categoria di soggetti. I principi innanzi richiamati non possono essere adulterati o svalutati con il richiamo ad un preteso pubblico generale interesse, che peraltro è privo di una verifica oggettiva e sottende semplicemente le scelte di politica economica operate dalla maggioranza di governo (sull’interesse fiscale, cfr. P. Boria, Capacità contributiva, in Comm. Cost., I, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, sub art. 53, Torino, 2006, 1055 ss., e Id., L’interesse fiscale, Torino, 2002).
Si ravvisano quindi giustificate ragioni per contrastare sul piano giurisdizionale la tendenza legislativa espressa dal provvedimento normativo in esame e per tutelare giudizialmente i diritti lesi; ed una immediata e contestuale reazione sul piano giurisdizionale di tutti i soggetti colpiti dal “taglio”, dinanzi a tutti gli organi giurisdizionali competenti per territorio, sembra necessaria, non solo per difendere gli interessi individuali e di categoria che risultano lesi, ma anche – ed ancor più – per contrastare la tendenza legislativa verso la riduzione dei diritti dei più deboli e per sfuggire alla situazione di emarginazione, alla lesione della dignità personale e alle condizioni di ansia e di insicurezza per il futuro, che inevitabilmente deriverebbero da atteggiamenti di indifferenza, di abulia o di resa.

Alessandro De Stefano

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