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La riduzione dell’adeguamento automatico dei trattamenti previdenziali nel nuovo contesto macro-economico

La gravissima crisi originata dall’emergenza epidemica ha già determinato un netto spartiacque tra il passato ed il futuro. È assai diffusa la consapevolezza che nulla sarà più come prima. Le previsioni ed i timori si rincorrono; si rafforza insieme la volontà di far fronte comune contro le avversità per preparare una nuova fase di ricostruzione, animata da un rinnovato senso di solidarietà e ispirata dagli ideali della giustizia sociale.

La nebulosità della situazione non consente ovviamente di formulare esatte previsioni e precise strategie. Come sempre, le opinioni oscillano tra le visioni catastrofiche di chi delinea scenari di tipo post-bellico e le speranze di chi prevede una ripresa vivace, sostenuta dall’intervento pubblico e capace di correggere gli errori del passato. L’ incertezze sugli esiti non può comunque distogliere da un’analisi lucida della situazione attuale e delle prospettive più verosimili, che consenta di adottare rapidamente le soluzioni d’urgenza che possano meglio fronteggiare i pericoli incombenti e che possano efficacemente garantire la migliore tutela di tutti gli strati sociali.

Molte voci si sono giustamente levate a favore degli interessi delle imprese, delle famiglie e dei lavoratori. Si richiedono correttamente consistenti finanziamenti a favore delle attività produttive, tutele per l’occupazione ed i salari, sussidi per i figli. Nell’ottica di unità e di solidarietà che è invocata dalla parte più nobile della politica e della società civile, merita di trovare adeguato spazio anche il tema della protezione della fascia della popolazione più debole: la fascia delle persone anziane, che non sono normalmente in grado di procurarsi nuove risorse economiche e che affidano la propria sussistenza al proprio reddito da pensione, maturato nel corso dell’intera vita lavorativa in base ai canoni del vigente sistema previdenziale. Per questa categoria, non occorre nessuna forma di incentivazione, ma si pone esclusivamente il problema del mantenimento delle pregresse condizioni di vita. Eppure, questa possibilità è seriamente minacciata, per effetto delle leggi economiche da un lato e delle vigenti disposizioni normative da un altro.

Tra i lineamenti della nuova fase, si possono ragionevolmente intravedere i sintomi di una pesante inflazione. Qualsiasi visione si voglia assumere in merito alle prospettive future, è difficile credere che l’economia reale non subirà comunque le conseguenze della crisi e che l’esigenza di recuperare adeguati margini di utile non si tradurrà in un corrispondente aumento dei prezzi. A non diversi esiti condurrebbe la massiccia immissione di liquidità che da più parti si invoca e si promette, in considerazione dell’eccezionalità della situazione economica ed in deroga al patto di stabilità: l’aumento della moneta in circolazione costituisce anch’essa naturale alimento di tensioni inflazionistiche.

Si può dunque ragionevolmente temere che il potere di acquisto della moneta non farà eccezione alla regola generale, secondo cui “nulla sarà più come prima”. Al contrario, come spesso è avvenuto nella storia, esso potrà rappresentare il più rilevante segno di discontinuità rispetto al passato.

Come è noto, l’inflazione rappresenta un elemento di diseguaglianza, perché altera l’equilibrio dei rapporti economici. Essa arreca pregiudizio ai titolari di redditi fissi, che continueranno a percepire nel tempo una quantità di denaro con un uguale valore nominale ed un valore reale progressivamente minore, ed avvantaggia i debitori, che adempiono alle proprie obbligazioni con moneta di uguale importo e di minore utilità di scambio. Ovviamente, questi effetti perversi assumono una rilevanza crescente con l’aumento delle tensioni inflazionistiche: più l’inflazione aumenta, più si aggravano le disuguaglianze e le sperequazioni cui essa dà luogo. I meccanismi di indicizzazione tendono a rimediare a questa sperequazione ed a ricostruire, almeno in parte, gli equilibri alterati.

Alla luce di queste considerazioni, meritano una nuova valutazione le misure che sono state adottate nell’ultimo ventennio, con intensità crescente, per contenere le spese del sistema previdenziale. In particolare, nel nuovo scenario macro-economico, che si preannuncia a seguito della crisi, assumono una luce ed un significato totalmente nuovi le vigenti disposizioni, che prevedono la riduzione dell’adeguamento delle pensioni al diminuito valore della moneta.

Occorre considerare, a tal riguardo, che l’art. 34 della l. 23 dicembre 1998, n. 388, aveva introdotto un meccanismo di sicurezza a tutela della categoria naturalmente “debole” degli ex-lavoratori, prevedendo la rivalutazione delle pensioni per ogni singolo beneficiario in funzione dell’importo complessivo dei trattamenti corrisposti. Secondo la Corte Costituzionale, tale adeguamento «costituisce uno strumento tecnico teso a salvaguardare le pensioni dall’erosione del potere di acquisto causata dall’inflazione, anche dopo il collocamento a riposo (sentenza n. 70 del 2015, punto 8 del Considerato in diritto, che cita, in proposito, la sentenza n. 26 del 1980), [e] si prefigge di assicurare il rispetto nel tempo dei principi di adeguatezza e di proporzionalità dei trattamenti di quiescenza» (ex plurimis, sentenze n. 70 del 2015 e n. 208 del 2014)» (Corte Cost., n. 250/2017).

Tuttavia, le regole sulla indicizzazione non godono di copertura costituzionale e devono essere bilanciate con altri principi fondamentali dell’ordinamento, come quello dell’equilibrio di bilancio introdotto dall’art. 1, comma 1, della l. cost. 20 aprile 2012, n. 1. Ciò ha giustificato l’adozione di varie disposizioni di leggi che hanno comportato una costante falcidia del potere di acquisto delle pensioni di importo superiore ai minimi, con un’incidenza progressivamente maggiore al crescere del trattamento. A ciò si sono talvolta sommati i “tagli” dei trattamenti previdenziali, che sono stati imposti con differenti norme e sotto diverse qualificazioni.

Prima l’art. 69, primo comma, della l. 23 dicembre 2000, n. 388, ha introdotto una limitazione di carattere generale alla rivalutazione, riducendola al 90% per le fasce comprese tra tre e cinque volte il trattamento minimo INPS ed al 75% per le fasce superiori; successivamente, tali limiti sono stati ulteriormente ridotti con numerose norme di durata temporanea, la cui efficacia è stata puntualmente rinnovata alla scadenza (art. 18, comma 3, d.l. 98/2011; art. 18, comma 3, d.l. 98/2011; art. 1, comma 483, l. 147/2013; art. 1, comma 286, l. 208/2015). In questo modo, negli ultimi anni il “blocco” o la “riduzione” dell’adeguamento automatico delle pensioni all’aumentato costo della vita ha assunto un sempre più marcato carattere di politica economica, volto a favorire il contenimento della spesa previdenziale. Reciprocamente, il trattamento previdenziale sta progressivamente smarrendo la sua natura di “retribuzione differita” ed il suo intimo legame con la qualità e la quantità del lavoro svolto nel periodo di impiego, fino ad assumere (quanto meno in versione volgare) gli aspetti tipici di un sussidio a carico dello Stato.

La Corte Costituzionale ha normalmente assecondato questa tendenza, nell’ottica del contemperamento degli opposti interessi. Con la sua ultima sentenza del 1° dicembre 2017, n. 250, che riassume i principi già enunciati dalla pregressa giurisprudenza (cfr., tra le altre, Corte Cost., 70/2015 e 173/2016), Essa ha affermato che le esigenze della finanza pubblica si possono conciliare con i principi di adeguatezza e di proporzionalità dei trattamenti pensionistici, attraverso «un sacrificio parziale e temporaneo dell’interesse dei pensionati a tutelare il potere di acquisto dei propri trattamenti». In definitiva, «il cardine intorno a cui devono ruotare le scelte del legislatore nella materia pensionistica» è rappresentato dal criterio della «ragionevolezza», il quale «assurge, per questa sua centralità, a principio di sistema».

L’ultima riduzione delle indicizzazioni è stato disposto, in continuità con i precedenti interventi e per la durata di tre anni, con l’art. 1, comma 260, della l. 31 dicembre 2018, n. 145 (legge di bilancio 2019). Si tratta di una norma contenuta in un maxi-emendamento governativo di complessivi 1.143 commi, che le competenti Commissioni parlamentari non hanno avuto la possibilità di esaminare e che è stato approvato dai due rami del Parlamento con sommaria discussione e previa presentazione di mozione di fiducia. Si è trattato del principale (se non unico) strumento di finanziamento delle maggiori spese di oltre 10 miliardi di euro previste dalla legge finanziaria per reddito di cittadinanza e pensionamenti anticipati.

Essa prevede che per il periodo 2019-2021 l’indicizzazione sia assicurata in misura piena per le sole pensioni pari o inferiori a tre volte il trattamento minimo INPS; sia ridotta in misura progressivamente crescente (dal 97% al 45%) per fasce pensionistiche definite tra gli importi superiori a quattro volte e pari o inferiori a nove volte a tale minimo; sia fissata nella misura del 40% per i trattamenti superiori al minimo. Secondo la relazione tecnica di accompagnamento della legge finanziaria, la norma si propone di realizzare un risparmio di spesa, al netto degli effetti fiscali, pari ad 253 milioni di euro per il primo anno, a 745 per il secondo e ad 1.228 per il terzo. Questi effetti si rifletteranno anche sulla spesa degli anni successivi, avendo carattere permanente e progressivamente crescente: infatti, le pensioni rimarranno definitivamente fissate nel minore importo determinato dall’applicazione di indici di rivalutazione ridotti, ed i successivi adeguamenti saranno calcolati su questa base inferiore.

Gli echi di questa disposizione non si sono ancora spenti. Sul tema pende un vasto contenzioso dinanzi ai giudici di merito ed un giudizio di costituzionalità dinanzi alla Corte Costituzionale, promosso in via incidentale dal Tribunale di Milano – Giudice del Lavoro – con ordinanza del 20 gennaio 2020 e rubricato con il n. 46 del 2020.

Le problematiche tradizionalmente originate da queste forme di politica economica devono considerarsi però alle spalle. Esse fanno riferimento ad un sistema governato dalle regole dell’equilibrio di bilancio e ad un regime economico di sostanziale stabilità monetaria. In questo contesto, occorreva stabilire se e fino a qual punto fosse consentito assoggettare la fascia sociale “debole” dei lavoratori-pensionati ad una continua e progressiva erosione del proprio reddito reale, seguendo una linea di inclinazione che poteva considerarsi pur sempre moderata e sostenibile.

Al giorno d’oggi, le tematiche sono radicalmente cambiate. Occorre chiedersi quale effetto la normativa attualmente vigente è idonea a produrre nel contesto radicalmente diverso che si può ragionevolmente figurare dopo l’uscita dal tunnel originato dalla crisi epidemica. Occorre quindi chiedere quale impatto il blocco così istituito sarà in grado di produrre nei nuovi scenari macro-economici, che saranno verosimilmente caratterizzati da un processo di svalutazione della moneta assai più consistente di quello registrato negli anni precedenti.

Questo interrogativo suscita una sfida immediata per il legislatore. Occorre infatti verificare se la suddetta normativa possa resistere nella tempesta monetaria che è lecito attendersi nella fase post-epidemica, secondo le comuni regole economiche. Dalla soluzione che si intenderà fornire a questo interrogativo, potranno derivare risposte non equivoche non solo sul significato e sulla portata di quelle disposizioni, ma anche sul vero senso degli appelli alla solidarietà che oggi riecheggiano al fine di incoraggiare la ripresa socio-economica del Paese.

Dal riesame che un legislatore saggio e previdente dovesse operare, potrà emergere che l’attuale blocco della rivalutazione delle pensioni sia stato pensato e voluto solo ed esclusivamente nell’ottica di una compressione bilanciata, proporzionata e temporanea degli interessi dei pensionati, in una situazione di sostanziale equilibrio del sistema economico ed in funzione del contingente interesse a finanziare reddito di cittadinanza e pensionamenti anticipati. In questa prospettiva, la norma non dovrebbe resistere, e dovrebbe essere perciò senza indugio abrogata, in un quadro radicalmente diverso, caratterizzato da un improvviso e contingente fenomeno inflattivo, nel quale potrebbe produrre effetti devastanti sulla capacità economia delle categorie più deboli. Ciò consentirebbe di ricostituire le pre-condizioni necessarie per affrontare con rinnovato impegno collettivo le sfide dell’auspicata ripresa, affrancando la categoria dei pensionati dalla condizione di emarginazione in cui sono attualmente confinati ed eliminando i fattori per i quali i costi della crisi possano essere accollate ingiustamente su alcune particolari categorie sociali. Oltre tutto, tale soluzione risponderebbe all’esigenza di non deprimere eccessivamente il livello della domanda nella fase della ripresa, come certamente avverrebbe qualora milioni di pensionati fossero privati della propria attuale (e già largamente decurtata) capacità economica.

Se invece si ritenesse che la norma sul blocco, approvata a scatola chiusa dal Parlamento nell’ambito della manovra finanziaria per l’anno 2019, possa continuare ad esplicare i propri effetti anche nei nuovi scenari, si svelerebbe il consapevole intento del legislatore di utilizzare la crisi come la fortunata occasione per fare definitivamente i conti con gli oneri del sistema previdenziale, riducendo drasticamente l’incidenza della spesa pensionistica sui bilanci pubblici e scaricando sulla categoria dei pensionati i più pesanti effetti della prevedibile inflazione monetaria. Ciò però significherebbe che i proclami all’unità ed alla solidarietà ai fini della ricostruzione si tradurrebbero in parole vacue, perché comporterebbe che dall’auspicata ripresa siano tagliati fuori gli strati più deboli e vulnerabili, che sarebbero esposti a condizioni di vita sempre più precarie, nello stesso momento in cui l’incalzare degli anni aggrava i propri bisogni e le proprie necessità.

Nella sventurata ipotesi in cui dovesse prevalere quest’ultima linea, una seconda sfida sarebbe affidata ai giudici, che sono già chiamati a pronunciarsi sulla legittimità della normativa vigente nei vari giudizi dinanzi a sé. Se, nell’inerzia del legislatore, il predetto art. 1, comma 260, della l. n. 145 del 2018 proiettasse i propri effetti anche sul “dopo-coronavirus”, il suo significato sarebbe profondamente alterato, rispetto a quello posseduto nel quadro economico “pre-crisi”: non si tratterebbe solo di un’equa ripartizione di sacrifici ed oneri, per rendere compatibile il quadro degli interventi con le esigenze di bilancio, ma si configurerebbe piuttosto una norma altamente aleatoria, diretta ad esporre la categoria dei pensionati a qualsiasi incertezza derivante dal mutamento degli equilibri del sistema macro-economico. In questa prospettiva, non resta che augurare che la Corte Costituzionale voglia attentamente valutare se questi reconditi significati e questi possibili effetti rispettino il requisito della “ragionevolezza” che la norma in questione dovrebbe possedere, alla stregua della sua pregressa giurisprudenza.

ALESSANDRO DE STEFANO